Intervista a Mario Petrone, l’uomo, la persona, l’allenatore
Mario Petrone si racconta a 360º ai microfoni di Granducato TV, in un’intervista condotta da Massimo Marini e andata in onda in esclusiva nella sera di Martedì 1 Maggio per lo “Speciale Neroazzurro”. Da poco più di un mese sulla panchina del Pisa Sporting Club, giovane allenatore, 45 anni all’anagrafe, Mario Petrone si sente più maturo professionalmente.
“Calcisticamente mi reputo un allenatore di 55 anni, alleno da 20 anni e dai 23 ai 25, negli ultimi anni da calciatore, ragionavo già da allenatore in campo. Ho avuto la fortuna di avere un presidente che ha creduto nelle mie potenzialità e ho iniziato da subito ad allenare i giovani e poi le prime squadre”.
Dove hai iniziato a giocare?
Nei vari settori giovanili di Napoli e poi negli adulti, nel Campania Puteolana.
Essere leader di una panchina, lo si è mutuando la propria esperienza da calciatore o è tutta un’altra storia?
È tutta un’altra storia perché il giocatore vive la sua settimana tipo per quelle che sono le esigenze personali e prepara il suo lavoro per arrivare al meglio alla domenica. L’allenatore invece deve, almeno per quanta mi riguarda, pensare a tutti e 24 i giocatori, ad ottenere il massimo dai giornalisti, sfruttando con rispetto la stampa per trasmettere messaggi.
I miei ragazzi sanno che attraverso la stampa mi rivolgo a loro ma questo è però anche il mio strumento per rivolgermi a tutta la piazza affinché tutti possano contribuire al massimo risultato. Quando io dico che voglio che i miei ragazzi siano sostenuti, perché sono dei bravi ragazzi, che si impegnano, lavorano sodo e in questo mese l’hanno dimostrato, lo faccio per il risultato.
Ci stiamo preparando per affrontare un finale di stagione da protagonisti ed io con la massima dedizione, e attraverso giornalisti, magazzinieri, collaboratori, staff medico e dirigenziale cerco di dare loro la serenità per ottenere il meglio.
Chi è Mario Petrone?
Sono una persona che si è fatto da solo. Da giocatore non ho mai giocato in serie A, ho fatto al massimo la Serie C. Quella serie C degli inizi degli anni Novanta, che è stata una categoria che ha vissuto il cambiamento del calcio, dal trequartista che marcava l’uomo, al calcio a zona che viviamo adesso. Ho avuto la fortuna di vivere quel cambiamento, che mi ha dato moltissimo e mi ha calcisticamente insegnato tanto.
Dove sei nato? E la tua famiglia com’è composta?
A Napoli. Ho due fratelli, una sorella e i miei genitori. Mio padre è un artigiano, un meccanico di automobili e mia madre, casalinga con la sua vita dedicata interamente ai figli.
Hanno fatto di tutto per farti fare il meccanico o ti hanno invogliato a fare il calciatore?
Beh, io sono di un quartiere molto particolare della periferia di Napoli, Barra, dove una piccola percentuale di questi quartieri è figlia di tante dinamiche che purtroppo conosciamo...
È stato difficile crescere in quei quartieri?
Raccontare è difficile. Ecco, come lo fanno in quel telefilm “Gomorra” non mi piace, non lo vedo, perché quelle vicende le abbiamo vissute in prima persona. Rivedere determinate scene dei nostri quartieri, fa male.
Crescere lì significa anche vivere la vita con un piglio diverso da chi magari è cresciuto in quartieri benestanti e ha avuto tutto più facile. Uno si fa per forza facendo la gavetta?
Si vive la quotidianità in maniera diversa. Tu scendi la mattina e sai che devi prevalere sull’altro.
La personalità te la formi in strada.
Io a 7 anni andavo a scuola da solo e facevo da solo 5 km, mi accodavo agli altri genitori perché mia mamma, ha sofferto un po’ della malattia di fine secolo, mio padre usciva presto la mattina... ed eri costretto ad arrangiarti. Ricordo benissimo la mia quotidianità, e poi in strada, tutti i giorni col pallone.
Cosa ti ha insegnato questo, nel mondo in cui vivi adesso?
La vita, va molto veloce e te ne accorgi anche dalla tecnologia che ci circonda. Vedere il drone, il motorino volante a Dubai, vedere queste immagini ti fa capire che per me si corre troppo e riportando tutto questo nel mondo del calcio, il giovane calciatore ha possibilità si, di evolversi maggiormente però poi è carente di valori.
Diciamo che hanno valori diversi.
I giocatori di oggi paragonati ai giocatori di una volta, dove magari portavi anche la borsa del capitano, oggi invece gli è portata. Questo si nota nella professionalità? Nella settimana di lavoro? Nel rapporto con gli altri, con te?
Noi dobbiamo essere bravi, io lo dico sempre, a ragionare anche su queste cose, perché le cose cambiano, c’è l’evoluzione anche della materia calcio e uno cerca sempre a 360º di dare la serenità giusta ai ragazzi per farli esprimere al massimo.
Per me non è importante avere questo tipo di servizio oppure come mi è capitato a San Marino, di costruire una palestra spartana sotto la tribuna con degli attrezzi vecchi.
I gruppi nascono ed un allenatore cerca di plasmarli al meglio.
È possibile che tu abbia fatto questo per ciò che hai vissuto da bambino?
Assolutamente si. Se non avessi avuto quel vissuto non avrei fatto certe cose.
Ti ha reso ambizioso oppure orgoglioso?
Credo tutte e due. Tutte e due le parole sono consone al mio modo di essere. Quando a 13/14 anni un genitore preferisce mandarti fuori a giocare per toglierti dalla quotidianità delle problematiche dei quartieri in cui vivi, dopo ti formi e capisci il perché di quella scelta e cerchi di gratificarla.
Ed è per questo che io, non avendo giocato a certi livelli, a certi livelli ci voglio arrivare e ci voglio arrivare con le mie forze.
Che cosa ti ha detto la tua famiglia quando hai accettato Pisa?
I miei genitori e i miei parenti più stretti a Napoli, non vivendo più con me, si sono sempre chiesti perché non allenassi e perché rifiutassi le squadre. Poi ho una bambina, Ivonne e mia moglie Sonia che adesso sta con lei. Mia moglie ha un percorso diverso, ragiona in maniera diversa e mi ha sempre detto di fare ciò che voglio e ciò che scelgo di fare, anche perché io quando decido, decido con la massima motivazione.
Non ti ha mai condizionato nelle scelte? Ti confronti con lei?
Non mi ha mai condizionato nelle mie scelte. Anche perché lei vede poche partite.
Come mai? Perché soffre vedendo il marito che magari a volte può non vincere o perché non le piace il calcio?
Noi ci conosciamo dall’età di 18 anni, il nostro percorso è vissuto assieme e sotto certi aspetti, ci conosciamo così talmente bene che a volte non serve neanche parlarci per capire certe cose. Ti racconto un esempio banale: Due giorni prima di andare a Bassano avevo deciso di aspettare ancora, mentre poi, due giorni dopo, le dico che avevo deciso di andare perché mi ero messo in testa di vincere il campionato. Le dissi che avrei tolto del tempo alla famiglia a lei, alla bambina, ma lei non mi disse niente e mi raggiunse poi a settembre con la bambina e abbiamo vissuto lì un bellissimo anno.
Essere ambiziosi vuol dire forse in parte essere anche un po’ presuntuosi?
Il problema di questa parola è che ha un’accezione negativa. Per me la presunzione è invece sinonimo di convinzione, convinzione del materiale che ho a disposizione. Questo concetto va trasmesso anche alla squadra perché così i ragazzi non ti vedono come presuntuoso ma ti vedono come una persona che crede nelle loro potenzialità.
Io credo in quello che faccio e mi comporto sempre per il massimo obiettivo. Sono un allenatore da obiettivo e l’obiettivo lo raggiungo attraverso i ragazzi, attraverso le persone che mi circondano, attraverso voi giornalisti con il vostro lavoro. Ogni componente è importante per il mio obiettivo.
È vero che a volte però, a chi non mi conosce o non mi vede lavorare quotidianamente posso risultare presuntuoso nell’accezione negativa del termine.
Lavori più sul campo o nello spogliatoio con il tuo gruppo?
Io lavoro 24 ore per la squadra, ci sono i tempi e gli spazi da spogliatoio e poi i tempie e gli spazi da campo. Questa esperienza è lampante, mi ha seguito solo un video analista, una persona che lavora a stretto contatto con me, tutta la giornata. Ho preferito lavorare con lo staff che era già presente a Pisa perché secondo me, cambiare tre allenatori in una stagione e per i giocatori, lavorare con tre staff diversi ad un mese dalla fine della stagione, non è una buona cosa.
Ritorniamo all’inizio del tuo mestiere, hai fatto l’allenatore iniziando dal Capri Linea Azzurra, fino ad arrivare a Pisa passando per Bassano, Lumezzane, Nuorese, San Marino, Catania, Ascoli. Rifaresti tutto quello che hai fatto o c’è qualcosa che se tu potessi, toglieresti dal tuo percorso?
Rifarei tutto quello che ho fatto, per un semplice motivo, perché ci sono degli step nella carriera di un allenatore che vanno presi nel momento in cui ti viene fatta l’offerta, non intendo economica ma intendo magari il salto dall’Eccellenza all’Interregionale o dall’Interregionale alla C.
Io ho scalato e l’ho fatto attraverso le vittorie dei campionati. Quando sono arrivato ad Ascoli a fare la serie B, è perché il campo ci ha dato la serie B. Non ho fatto il salto di categoria perché ho avuto richiesta da una società, le cose me le sono conquistate sul campo. Io in questo ci credo molto e quando 10 anni fa, dicevo che per allenare a certi livelli io, devo vincere, perché in serie A non mi conoscono, non sanno chi è Petrone calciatore oppure come persona. Lo posso fare solo vincendo.
Non ho rancori, non ho remore. Non sono una persona che si ferma a pensare a quello che è stato. Io penso a sapere cosa deve succedere stasera, domani e a raggiungere l’obiettivo.
La vicenda di Catania fa capire che Mario Petrone non accetta compromessi o quantomeno non accetta che non siano chiari i progetti e i percorsi da fare insieme.
La parola “compromessi” in quella circostanza non è la parola giusta. In generale certo, sono una persona che non accetta compromessi. A Catania sono stato chiamato per raggiungere il massimo obiettivo attraverso i playoff, sapendo che il raggiungimento dei playoff mi avrebbe lasciato lavorare a Catania l’anno dopo dall’inizio.
Andare d’accordo con Lo Monaco penso che non sia molto facile...
Ma guarda io in quei 23 giorni con il direttore ho imparato tantissimo. È un uomo di calcio a tutto tondo, una persona giusta che mi ha insegnato molto. Io ho preferito lasciar spazio ad un altro, lasciando un mese e mezzo di contratto. Sono legato a quell’ambiente, a quella tifoseria che è così passionale come lo è Pisa, come è Ascoli, ma ho dato le dimissioni perché in quel momento, per il segnale che ho ricevuto dall’ambiente e dalla squadra stessa, non era una squadra che avevo intuito potesse vincere i playoff e dell’anno successivo a quel punto, mi interessava ben poco perché io volevo vincere da subito.
Di tutte le squadre che hai avuto, la rosa del Pisa attuale, confrontandola anche con le squadre con le quali hai vinto il campionato, è pari, seppur con sfaccettature tecniche diverse, ad altre tue squadre e una delle più forti che hai allenato?
Sono momenti diversi. Sarò onesto, io ho vinto con i giovani e con le squadre esperte, con squadre e società che hanno speso e con società che non hanno speso un centesimo. È la mia esperienza diretta. I campionati si vincono a giugno, a luglio, iniziando a plasmare un gruppo e motivarlo, quando si crea quell’alchimia giusta. Quando ho vinto col San Marino, col Bassano, col Lumezzane, l’ho vinto con avversari che erano molto più competitivi di noi e quella esperienza mi ha portato a credere realmente in quello che si fa. Perché non provarci ad Ascoli che eravamo una squadra competitiva, forte e perché non provarci a Pisa? Alla Nuorese in Interregionale subentrai alla dodicesima giornata, eravamo quintultimi, vincemmo il campionato alla penultima giornata. La squadra era forte, era competitiva.
Il Pisa ha un organico che per quelle che sono le mie caratteristiche, manca di qualche requisito in alcuni ruoli Avendo però rivisto tutto il campionato, conoscendo la categoria, è una squadra che deve dire la sua fino alla fine, anche se nei miei canoni manca in qualcosa ma è una squadra di una velleità giovane e di questo sono contento perché la gioventù è spesso sinonimo di spensieratezza, dell’essere spavaldo in maniera giusta, e quindi di saper approcciarsi come abbiamo fatto col Pro Piacenza e con la voglia e la determinazione che abbiamo avuto sia con la Giana Erminio sia con il Pontedera, di una squadra che va a cercare la vittoria a tutti i costi.
Tu conosci Pisa dall’inizio del campionato perché ad Olbia-Pisa eri presente in tribuna sarda, anche perché abiti in quella zona, ma che idea ti eri fatto del Pisa in quella partita? La stessa che hai ora vivendola oppure diversa?
Io non amo giudicare. Non vivendo la quotidianità delle squadre, ricordo che in un’intervista rilasciata proprio in quel momento, parlai di Birindelli che subentrò a partita in corsa e dissi che quello era un giocatore che se un domani dovessi mai fare la serie A, lo porterei con me e per questo motivo quando sono arrivato, l’ho chiamato per dirgli cosa dissi di lui in quella circostanza e che per questo pretendevo da lui il 200%. L’organico è stato fin da subito importante, già da quando è stata allestita la squadra.
Già in quell’intervista dicesti “secondo la mia idea di calcio manca qualcosa però questa squadra deve giocare per vincere, può vincere perché ha l’organico per farlo”.
È un organico completo al di là di tutto, nel girone di andata con a disposizione i centrali, Lisuzzo, Ingrosso, Carillo e Sabotic poteva giocare con la difesa a 4 e con la difesa a 3. Davanti con Cernigoi che proveniva dal Vicenza, c’erano tutti gli elementi giusti per un campionato da vertice.
È normale che bisogna fare i conti con le avversarie, c’era Livorno, Alessandria che stava deludendo, bisognava dare continuità. Io non so che cosa sia successo, so solo che la sensazione che ho avuto durante l’anno è che questa squadra non ha mai dimostrato di avere la mentalità di voler vincere una partita a tutti i costi e questo ai miei ragazzi l’ho detto fin dal primo giorno in cui sono arrivato, nonostante fossero le mie sensazioni personali che avevo da esterno.
Quando sei arrivato, il 26 marzo, hai detto: il mio obiettivo è di creare una mentalità da squadra vincente. Sta qui il tuo credo calcistico e anche il tentativo di dover fare il prossimo mese, un possibile miracolo?
Si, perché la mentalità si crea nel lavoro quotidiano, la si crea pensando e lavorando nello specifico per esperienza vissuta e per quelle che sono le caratteristiche sia della squadra, sia dell’ambiente in cui lavori. Il campo sul quale lavoriamo, ad esempio, ha dei pregi e dei difetti, ne abbiamo un altro vicino e dobbiamo ottimizzare al massimo le strutture che abbiamo sapendo che non sono massimali ed idonee.
È un vecchio problema che ci trasciniamo da decenni... i terreni e le infrastrutture sono fondamentali per un allenatore?
Lo sono, ma ritornando a quello che è il mio percorso di vita, c’è lo spirito di adattabilità e questo da un lato è positivo per la squadra perché noi non ci dobbiamo lamentare, noi dobbiamo pensare a sfruttare solo le potenzialità che abbiamo.
Quando sei stato chiamato dalla società hai detto si, con un contratto a termine con la clausola del raggiungimento della semifinale dei playoff che ti darebbe automaticamente il rinnovo. Ovviamente con tuo consenso. È così?
No, non è così.
Quindi... finisci il campionato e sia che tu lo vinca o meno decidi di andartene?
Io sono un tradizionalista per natura, io amo ancora stringere la mano alle persone, per me la parola vale più di una firma e la mano l’ho stretta al presidente Corrado. Non ho parlato del contratto, a questo ha pensato l’agente che ha condotto la trattativa. Il presidente mi deve conoscere, prima di tutto come persona, poi come allenatore. Ovviamente la conoscenza è reciproca ma per me è importante che avvenga con la massima serenità. Sono vent’anni che alleno e purtroppo la parola progetto, in Italia, non esiste e lo dico con un pizzico di rammarico.
E questa non potrebbe essere l’occasione di crearlo? Poi ti auguriamo e ci auguriamo che tu riesca a fare il miracolo ma se non dovesse essere, perché dover andar via? Almeno che ovviamente, tu non ti trovi bene e decida di prendere un’altra strada.
Io sono il terzo allenatore. Nel momento in cui sono stato chiamato, una società fa fatica a trovare una progettualità con un allenatore che deve allenare una squadra per cinque partite più i playoff. Non doveva pesare la scelta su di me, dal punto di vista contrattuale. A Catania ho lasciato un contratto di un anno e mezzo, io non sono una persona legata ai contratti ma legata al progetto, si.
Non ti piacerebbe scrivere un po’ di storia in questo ambiente?
Assolutamente! Sono qua per questo, sono venuto per questo motivo ma in quel momento, ho parlato con un presidente deluso, anche per le scelte indolore che uno deve fare, non è bello dover esonerare un allenatore, certo non si può cambiare venti giocatori ma uno deve cercare di dare una sterzata alla stagione. In quel momento, era giusto dirsi solamente: conosciamoci, mi veda per la persona che sono, che per me è la cosa più importante, veda come opero calcisticamente e poi, ci sederemo davanti ad un tavolo...
E la sera del 16 giugno, deciderete...
Si, si, decideremo...
Ho detto 16 giugno.
Si, perché è il nostro obiettivo.
Pacciardi, che è stato un tuo calciatore ha detto di te: “La voglia e l’atteggiamento di mettersi a disposizione della squadra, ha le caratteristiche per tirar fuori il meglio dai giocatori e ora ne ha l’opportunità”. È un bel complimento.
Si, Gabriele io l’ho voluto a San Marino perché era quel tipo di profilo, sia come caratteristiche umane, sia come caratteristiche tecniche, che ci vuole in mezzo al campo, così come Addae. Un giocatore che ti dia fisicità, giocare in due a centrocampo significa coprire 40/50 metri in due. Serve fisicità quando chiedi al centrocampista di inserirsi.
Secondo te chi ha detto: mister Petrone è un allenatore che ha molta fame?
Un po’ tutti...
Aggiunge: “È stato fuori non allenando per scelta in attesa della chiamata giusta che adesso con il Pisa, direi sia arrivata. Con lui, gli attaccanti segnano sempre”.
Queste sono le dichiarazioni di Leo. (Leo Perez). Sono le parole giuste perché quando io l’ho preso ad Ascoli, con me ha fatto 13 gol, con gol importanti e 17 li ha fatti Altinier che era da un po’ di anni che non segnava. Bisogna conoscerli e bisogna conoscere principalmente le caratteristiche di ognuno di loro. Se dietro agli attaccanti non c’è un lavoro di otto giocatori, per quel che mi riguarda, si fa fatica a fare gol.
Come arriva la squadra con 20 giorni di pausa?
Al punto massimale in cui può arrivare. Con il percorso dell’ultimo mese e di cinque settimane fatte in maniera diversa, anche come carichi di lavoro. Vi sembrerà strano ma le ultime cinque partite con i ragazzi, le ho gestite come fossero i primi quattro mesi di attività. Ed è a questo che mi riferivo quando dicevo che cinque settimane sarebbero potute sembrar poche ma sarebbero potute esser molte, dipende dall’atteggiamento della squadra. La partita col Pontedera per me è un quadro che loro hanno davanti agli occhi che devono guardare ogni volta che ci sarà il confronto decisivo, che può essere il ritorno del doppio confronto.
Sai che adesso in Italia piace fare a tutti l’allenatore al bar, c’è chi azzarda a ipotizzare di fare un richiamo, ma cosa fa un allenatore in 20 giorni?
Un richiamo non si può fare perché dopo dieci mesi di attività, bisogna fare un lavoro personalizzato. Non tutti hanno giocato lo stesso tempo, quindi qualcuno farà 45 minuti, chi 90 minuti di amichevoli, chi farà due amichevoli in un giorno.
Questo tipo di avvicinamento è previsto per i playoff per far arrivare tutti a ritmo gara nella piena efficenza perché va considerato che nei playoff, cambia anche il regolamento e dobbiamo stare attenti a tutto in quelle sette partite che dobbiamo fare.
La logica delle cinque sostituzioni è una regola giusta secondo te?
È giusta ma non bisogna pensare come invece qualche addetto ai lavori fa, che risolve il problema all’allenatore perché non deve mandare nessuno in tribuna, può portarli tutti in panchina. Per me è mortificante ragionare così, perché il calcio è gioco di squadra e ci deve essere la giusta e sana competizione. Le cinque sostituzioni vanno sfruttate per quello che è l’andamento della gara.
Sei uno dei pochi allenatori che entra in campo con la squadra, ricordo che lo faceva Ventura. Perché?
Perché vivo con loro tutta la settimana e vivo anche per loro, tutta la settimana. L’allenatore è uno di loro. Non posso ovviamente scendere in campo ma loro sanno che io sono in campo in mezzo a loro anche solo chiamandoli. Per qualcuno magari non è importante, ma per altri, sentire il sostegno anche tramite il tatto, con una pacca sulla spalla è importante perché sanno che il mister sta con loro, scende in campo con loro. Loro in campo sono il mio pensiero calcistico, li aiuterò sempre, nel momento in cui loro mi danno la prestazione, io sono il loro alleato.
C’è una squadra che vorresti evitare in questa lotteria finale?
Non c’è una squadra che vorrei evitare, vorrei evitare invece, certe prestazioni.
Noi dobbiamo dimostrare che se il Pisa fa la prestazione, può incontrare chiunque.
Non esiste una squadra che non sia ambiziosa quando inizia il campionato ma io voglio pensare a noi.
Noi dobbiamo dare il massimo, perché se diamo il massimo, ce la giochiamo fino alla fine e non ce n’è per nessuno.
Davanti agli occhi dovremo sempre avere quel quadro, la partita con il Pontedera, e ce l’avranno anche gli altri visto che siamo andati in diretta nazionale alla TV e qualcuno avrà avuto modo di vederci e di ricredersi sul Pisa.
Daremo il massimo essendo umili, determinati e con la giusta cattiveria agonistica di quella serata.
Grazie mister Petrone per la disponibilità di questa lunga intervista, ti facciamo un grande in bocca al lupo e ti auguriamo di scrivere una pagina nell’albo, lunghissimo e d’oro di questo sodalizio!
Grazie e crepi il lupo!